Come gestire le relazioni interpersonali sul lavoro?
Sono un ingegnere meccanico, mi occupo di design meccanici e manutenzione per un’azienda che produce macchinari pesanti. Lavoro qui da quando mi sono laureato. I primi sei mesi passarono in un lampo; il lavoro andava piuttosto bene. Riuscivo a risolvere facilmente qualunque difficoltà incontrassi grazie alle mie capacità e alle tecniche acquisite, perciò il manager era molto soddisfatto delle mie prestazioni e mi lodava per il mio buon - anzi, ottimo lavoro. Ricevere quei complimenti dal mio manager mi faceva sentire un talento raro.
Un giorno, il manager mi chiamò nel suo ufficio e disse: “Visto che non riusciamo a trovare persone qualificate, vorrei che ti occupassi di un altro tipo di macchinari pesanti. Ciò significa doppio carico di lavoro e più ore. Per aiutarti, l’azienda ti affiderà dieci sottoposti di cui sarai responsabile. Che ne pensi?”. Il fatto che il manager mi affidasse un compito così importante mi faceva sentire davvero emozionato. Pensai: “Con tutte le cose che ho imparato all’università e la solida esperienza maturata durante lo stage, sono certo di essere qualificato per questa posizione”. Pertanto, accettai la sfida di buon grado.
Dopo essermi insediato nella mia nuova posizione, provai ad assegnare dei compiti ai miei sottoposti per vedere come li avrebbero svolti: l’obiettivo era valutare le loro prestazioni per sapere come strutturare il lavoro. Tuttavia, fui molto sorpreso quando scoprii che, sebbene avessero tutti diversi anni di esperienza lavorativa, la loro preparazione non era buona come pensavo. Inoltre, erano rigidi e inflessibili. Quando una macchina si fermava all’improvviso perché qualcosa non andava, se non riuscivano a trovare la soluzione nel manuale chiedevano a me. Pensavo: “Sono davvero ottusi! Non hanno un minimo di flessibilità, anche dopo aver lavorato qui tutti questi anni”. Non avevo altra scelta che dir loro cosa dovevano fare. Purtroppo, spesso non capivano quando spiegavo un processo operativo, perché avevano un grado di istruzione molto inferiore al mio, e la cosa mi frustrava parecchio. Ero sempre meno paziente. Pensavo: “Perché il manager ha scelto queste persone come miei sottoposti? Vuole aiutarmi o ostacolarmi? Sono davvero indolenti! Mi chiedo come abbiano fatto per sei o sette anni. È più facile se faccio le cose io, invece di stare a impazzire per insegnare a loro”. In seguito, considerando le loro scarse prestazioni e il basso livello d’istruzione, ero diffidente nell’affidare loro dei compiti per paura che sbagliassero, perché io, in quanto loro capo, ne sarei stato responsabile. Pertanto, a loro assegnavo solo compiti poco importanti che non avrebbero influito sull’andamento dell’azienda, mentre a quelli più importanti, o che richiedevano un maggiore uso della ragione, pensavo io personalmente dall’inizio alla fine.
Neanche due settimane dopo, una delle nuove macchine iniziò a fare i capricci. In fatto di conoscenza teorica ero imbattibile, ma non sapevo come risolvere problemi pratici su una macchina nuova in situazioni reali. Al pensiero della fiducia che i capi dell’azienda avevano risposto in me, la pressione aumentava. Spesso facevo straordinari o rimanevo sveglio fino a tardi a studiare il manuale delle macchine, solo per acquisire le tecniche corrette. Dopo circa un mese iniziai ad accusare la mancanza di sonno; al lavoro ero esausto. Inoltre, ogni volta che mi dicevano che il manager voleva parlarmi, mi prendeva l’ansia. Una mattina, la macchina si fermò improvvisamente. Io e i miei sottoposti provammo a ripararla per ore, ma non ci fu niente da fare. Di conseguenza, il lavoro restò fermo per l’intera mattina e influì sull’intera produzione della compagnia. Il manager mi diede una bella girata e mi derise, dicendo: “Gli universitari di oggi non valgono poi molto. A cosa serve, ora, tutto il tuo studio?”. Il suo sarcasmo mi rese sprezzante, e pensai: “Non è forse dovuto al fatto che mi manca l’esperienza? Dov’è il problema? Devo solo imparare qualche nuova abilità e non farò mai più un errore del genere”.
Alla fine del mese, il manager indisse una riunione. Volevo dimostrare a tutti le mie capacità, perciò usai tutta la mia conoscenza professionale per avanzare delle proposte. Proprio mentre esprimevo le mie idee orgogliosamente, due sottoposti con una discreta esperienza evidenziarono i limiti delle mie proposte, il che mi irritò molto. Pensai: “Quanti anni avete studiato? Avete solo un paio d’anni d’esperienza più di me, cosa vi fa credere che possiate darmi consigli? E poi, il manager ha scelto me per questo incarico. È la prova che non sono meno capace di voi”. Iniziai a discutere con loro. Per cercare di screditarli alzai la voce e menzionai paroloni e teorie che loro, di sicuro, non avrebbero capito. Alla fine si zittirono, riconoscendo in me una figura professionale preparata a cui avrebbero dovuto dare ascolto. Visto che ciò che avevo detto era chiaro e logico, anche il manager accettò il mio suggerimento.
Iniziai ad essere più duro coi miei sottoposti, così avrei dimostrato le mie capacità manageriali. Ogni volta che li vedevo bighellonare, o lavorare svogliatamente, li strigliavo talmente tanto che non osavano alzare la testa. Un giorno mi arrabbiai moltissimo perché sorpresi uno dei subordinati su Facebook. Pensai: “Che irresponsabile. C’è del lavoro da fare e hai l’audacia di startene lì a giocare sul telefono”. Quando notai che lì vicino c’erano dei colleghi di altri reparti, sentii ancora di più che la mia dignità era in pericolo: il comportamento del mio subordinato rappresentava me, e lui si stava mostrando indisciplinato! Come sarei apparso agli altri reparti? Avrebbero riso della mia incompetenza! Perciò sgridai il mio subordinato a voce alta, in modo che potessero sentirmi: “Se lavori con me devi sottostare alle mie regole. Non giocare sul telefono e non rispondere a chiamate personali. Chiunque infranga le regole sarà espulso dal gruppo”. Dopo essere stato sgridato, quel sottoposto non osava alzare la testa. In quel momento mi chiesi se avessi esagerato, ma quando mi ricordai di essere il suo capo, e che era mio dovere gestire i miei sottoposti e curare che si comportassero correttamente, mi dissi che avevo fatto bene.
Qualche mese dopo, una sorella mi introdusse al Vangelo del Regno di Dio Onnipotente. Attraverso il discorso della sorella, imparai che da quando noi esseri umani siamo stati corrotti da Satana, in noi risiede una natura satanica corrotta. Viviamo dipendendo da essa, perciò ci allontaniamo sempre più dalle fattezze di un vero essere umano. Dio Onnipotente Si è incarnato e sta esprimendo la verità negli ultimi giorni con la quale ci salverà e ci purificherà. Solo se accettiamo la nuova opera di Dio e pratichiamo secondo le Sue parole, potremo essere liberati dalla nostra natura corrotta e vivere da veri esseri umani. La sorella mi parlò molte volte della sua esperienza dell’opera di Dio. I suoi discorsi erano sempre molto concreti, mi piaceva parlare con lei.
Una sera, mentre chattavo con la sorella, lei notò che avevo la voce rauca e mi chiese quale fosse il problema. Risposi: “Ho dato una bella girata ai miei sottoposti. Erano distratti e la tiravano per le lunghe. Fanno un sacco di errori che mi screditano agli occhi del manager”. Dopo aver ascoltato le mie lamentele, la sorella disse: “Agli occhi di Dio, siamo tutti esseri creati. Siamo tutti uguali: abbiamo solo lavori e doveri diversi. In quanto capo, dovresti cercare di curarti di loro invece di limitarti ad arrabbiarti e sgridarli. Hai messo in luce la tua arroganza, la tua presunzione e mancanza d’amore”. Le sue parole mi fecero un effetto strano, non sapevo cosa dire. Vedendomi in quello stato, la sorella mi inviò un passo delle parole di Dio: “Quando un uomo ha raggiunto una condizione di prestigio, spesso fatica a controllare il proprio umore, e non perde occasione per esprimere insoddisfazione e dare libero sfogo alle sue emozioni; va spesso su tutte le furie senza una ragione evidente, in modo da mettere in evidenza la sua capacità e far sapere anche agli altri che il suo prestigio e la sua identità sono diversi da quelli delle persone comuni. Naturalmente anche le persone corrotte e di basso rango perdono frequentemente il controllo. La loro collera dipende sovente da un danno ai loro vantaggi personali. Per proteggere il prestigio e la dignità personali, spesso l’umanità corrotta sfoga le proprie emozioni e mette a nudo la propria arroganza. L’uomo si abbandonerà a esplosioni di collera e darà libero sfogo alle sue emozioni per difendere l’esistenza del peccato: con tali azioni l’uomo esprime la sua insoddisfazione. Azioni del genere traboccano di impurità; sono colme di macchinazioni e intrighi; mostrano tutta la corruzione e la malvagità dell’uomo; più ancora, sono colme delle ambizioni e dei desideri sfrenati dell’uomo. […]”. Poi commentò: “Dopo essere stati corrotti da Satana, la nostra natura è diventata arrogante. Soprattutto quando abbiamo una certa posizione sociale, sentiamo ancor più di essere diversi dagli altri. Pertanto, la nostra natura arrogante continua a crescere. Quando ci imbattiamo in qualcosa che non ci soddisfa, sfoghiamo la nostra insoddisfazione tramite la rabbia. Ma, così facendo, vogliamo solo che gli altri notino la nostra posizione sociale e ci obbediscano. Quando i nostri interessi personali vengono lesi, non possiamo fare a meno di perdere le staffe per difendere la nostra dignità e fare in modo che gli altri ci temano. A prescindere dalla situazione, è la nostra natura arrogante che ci fa esplodere di rabbia per difendere il nostro status, i benefici che comporta e la nostra dignità”.
Dopo aver ascoltato il discorso della sorella, pensai: “Per difendere la mia posizione sociale e la mia dignità in qualità di capo, mi sono arrabbiato per far vedere ai miei sottoposti e ai colleghi di altri reparti chi comandava. Quando ho discusso di strategie con i miei sottoposti, se qualcuno si opponeva alle mie idee e la mia dignità veniva messa in discussione, alzavo la voce per far vedere a tutti gli altri che discutere con me li avrebbe solo portati a perdere la faccia. Ho sempre pensato che, come capo, avrei dovuto dimostrare dignità e fare in modo che i sottoposti mi ascoltassero. Invece, le mie azioni erano la manifestazione della mia natura corrotta, innescate solo dal mio desiderio di mantenere status e dignità”.
La sorella mi lesse un latro passo delle parole di Dio: “Dio creò l’uomo, gli soffiò nelle narici il Suo alito di vita, e gli diede anche parte della Sua intelligenza, delle Sue capacità e di ciò che Egli ha ed è. Dopo che gli ebbe dato tutte queste cose, l’uomo fu in grado di compiere alcune azioni in modo indipendente e di pensare con la sua testa. Se ciò che l’uomo inventa e fa è buono agli occhi di Dio, Egli lo accetta e non interferisce. Se ciò che l’uomo fa è giusto, Dio Si limiterà a lasciarlo così per sempre. Allora cosa rivela la frase ‘e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli darebbe’? Essa suggerisce che Dio non apportò alcuna modifica ai nomi delle varie creature viventi. Qualunque nome Adamo scegliesse, Egli diceva: ‘Sì’ e lo registrava così com’era. Espresse forse qualche opinione? Sicuramente no. Dunque cosa vedete qui? Dio diede l’intelligenza all’uomo e questi la usò per fare le cose. Se ciò che l’uomo fa è positivo agli occhi di Dio, viene confermato, riconosciuto e accettato da Lui senza alcuna valutazione né critica. […] se con Adamo ci fossero stati Satana o una persona corrotta, sicuramente avrebbero rifiutato ciò che egli stava facendo. Per dimostrare di avere la capacità di pensare in maniera autonoma e delle intuizioni uniche, avrebbero assolutamente negato tutto quello che Adamo faceva: ‘Vuoi chiamare così questa cosa? Be’, io no, la chiamerò in quest’altro modo; tu l’hai chiamato Tom, ma io lo chiamerò Harry. Devo sfoggiare la mia intelligenza’. Che tipo di natura è questa? Non è estremamente arrogante? Ma Dio ha un’indole simile? Sollevò obiezioni insolite a ciò che fece Adamo? La risposta è inequivocabilmente no! Nell’indole che Dio rivela, non c’è un briciolo di polemica, di arroganza o di presunzione. Qui è più che chiaro”.
Finito di leggere, commentò: “Dio è supremo, e la Sua posizione e la Sua identità sono onorevole, ma la manifestazione della Sua indole ci mostra che è umile e adorabile. Non c’è arroganza nell’indole di Dio. Purché ci comportiamo secondo la Sua volontà, Egli lo accetterà, non lo cambierà né lo negherà. Confrontando la manifestazione dell’indole di Dio con la nostra attitudine nei confronti dei sottoposti, risulta facile vedere la nostra natura corrotta. Siamo molto arroganti, ipocriti e presuntuosi, e l’indole di Dio è così bella, e per questo ci vergogniamo”. Il discorso della sorella mi fece vergognare talmente tanto di me stesso, che non riuscivo a mostrare la faccia. Pensai: sono un uomo corrotto. Una volta raggiunta una certa posizione nell’azienda, ho iniziato a fare ciò che mi pareva e a usare il mio potere per opprimere gli altri. Paragonando la mia arroganza con l’umiltà e l’assenza di Dio, mi vergognavo profondamente. In quel momento, decisi di scusarmi con i miei sottoposti e, con molto coraggio, ammettere i miei errori.
La mattina dopo, ripensando all’impegno che avevo preso la sera prima nei confronti di Dio, mi pentii un po’: dovevo davvero scusarmi coi miei sottoposti? A loro piaceva spettegolare, e se mi fossi davvero scusato e loro lo avessero detto a quelli degli altri reparti, che figura ci avrei fatto? Ci pensai su, ma il pensiero di scusarmi mi imbarazzava. La terza sera, dopo il lavoro, la sorella mi mandò un messaggio chiedendomi se mi fossi scusato. Inventai una scusa, dicendo che me ne ero dimenticato perché al lavoro c’erano state troppe cose da fare. La sorella mi disse: “Questa è una scusa. Stai evitando di scusarti, vero?” Mi vergognai e dissi: “No, davvero. Domani lo faccio”.
L’indomani, quando stavo per uscire per andare al lavoro, la sorella mi mandò un messaggio per ricordarmi di mettere in pratica la verità. Mi sentivo sotto pressione, ma sapevo di non poter evitare oltre, altrimenti avrei perso credibilità. Arrivato al lavoro, guardai il mio orologio: i miei sottoposti sarebbero arrivati a breve. Ero nervoso, non riuscivo a star fermo. Il solo pensiero di scusarmi con loro mi causava grande sofferenza. Ancora non riuscivo a mettere in pratica la verità, ed ero a un passo dal lasciar stare tutto: non volevo farlo, perciò avrei mentito alla sorella dicendole che mi ero scusato. Pensai che dire una bugia una volta non fosse un gran problema. Poi, però, rinunciai all’idea, perché se avessi davvero mentito mi sarei sentito ancora più a disagio e avrei solo ingigantito il mio errore. Non sapevo cosa fare. Proprio allora, mi ricordai delle parole di Dio che dicono: “La sofferenza, quando si pratica la verità, è inevitabile; se, nel mettere in pratica la verità, dentro di loro fosse tutto giusto, allora non ci sarebbe bisogno di essere resi perfetti da Dio, e non ci sarebbero né battaglie né sofferenze. È perché dentro le persone ci sono molte cose che non sono adatte a essere utilizzate da Dio, soprattutto per quanto riguarda l’indole ribelle della carne, che gli individui hanno bisogno di imparare più profondamente la lezione della ribellione contro la carne. Questo è ciò che Dio chiama sofferenza, ciò che Egli ha chiesto all’uomo di patire insieme a Lui. […]”. Grazie alle parole di Dio, capii di essere profondamente corrotto, e ciò mi rendeva difficile praticare la verità e vivere da essere umano genuino. Realizzai che abbiamo davvero bisogno di essere salvati da Dio, e capii che quel giorno Dio aveva disposto quella situazione non per umiliarmi, ma per salvarmi dalle catene di Satana e aiutarmi a vivere da vero essere umano. Perciò, pregai Dio nel mio cuore affinché mi donasse forza e coraggio, con cui avrei messo in prativa la verità per portare testimonianza di Dio. Dopo aver pregato, a poco a poco mi calmai. I sottoposti erano ormai arrivati al lavoro, perciò chiesi a tutti loro di incontrarmi in sala conferenze. Come prima cosa mi scusai, poi mi aprii completamente: confessai di aver commesso azioni che li avevano fatti soffrire e chiesi il loro perdono. Dopo essermi scusato, mi sentivo come se mi fosse stato tolto un gran peso dal petto; ero rilassato. I miei sottoposti erano rimasti sorpresi dal mio comportamento, ma mostrarono comprensione per la grande pressione a cui ero sottoposto in quanto capo. Vedendo di avere a che fare con persone tanto ragionevoli, mi vergognai: erano davvero brave persone, e io li avevo trattati davvero male. La mia corruzione era profonda.
Da quel momento, spesso pranzavo con loro e chiedevo se ci fosse qualcosa che non avessero capito. Li aiutavo più che potevo. Loro iniziarono anche a parlarmi delle famiglie. Dopo aver interagito con loro per qualche tempo, mi resi conto che erano tutti davvero molto gentili, proprio come i miei parenti. Da allora, il nostro rapporto divenne armonioso.
Poiché mi sobbarcavo personalmente la maggior parte del lavoro, spesso mi sentivo esausto, mentalmente e fisicamente. Una volta, durante un incontro, i fratelli e le sorelle mi chiesero come stessi. Raccontai loro cosa pensavo dei miei sottoposti e della pressione che sentivo al lavoro. Poi una sorella disse: “A dire il vero, tutto ciò che è creato da Dio è perfetto. Ognuno ha i propri punti di forza. Siamo troppo arroganti se pensiamo spesso di essere meglio degli altri. Leggiamo questi due passi delle parole di Dio: ‘Fra tutti gli esseri del creato, dai grandi ai piccoli, dai piccoli ai microscopici, non ve ne era alcuno che non fosse stato creato dall’autorità e dalla potenza del Creatore, e nell’esistenza di ogni creatura vi erano necessità e valore unici e intrinseci. A prescindere dalle differenze di forma e struttura, era sufficiente per loro essere stati creati dal Creatore per esistere sotto l’autorità del Creatore. […]’. ‘Non essere ipocrita; prendi i punti di forza degli altri e usali per compensare le tue carenze. […] Se tu ritieni gli altri inferiori a te, allora sei saccente, presuntuoso e non sei di beneficio per nessuno. […]’”. Dopo aver letto le parole di Dio, la sorella proseguì il suo discorso: “Dio è retto. Anche se ci dona diversi punti di forza e capacità, c’è del valore nell’esistenza di ogni creatura. Il nostro pensare di essere superiori agli altri e il nostro guardarli dall’alto in basso derivano dalla nostra indole arrogante e presuntuosa, che ci porta a paragonare i nostri punti di forza con le debolezze altrui. Pertanto, non trattiamo gli altri in modo corretto e non lasciamo che compiano il proprio dovere. Faresti meglio ad aiutarli a trovare il proprio posto al lavoro e a far uscire il meglio di loro, così svolgeranno bene i propri compiti. Anche tu puoi imparare dai talenti degli altri e colmare le tue lacune, così migliorerai anche le tue prestazioni”.
Il discorso della sorella mi aveva illuminato: mi lodavo sempre e sminuivo gli altri perché ero laureato e possedevo delle competenze. Era la mia natura arrogante e presuntuosa a farmelo fare. Persino coloro che non credono in Dio dicono che “Tutti sanno fare qualcosa”; perché io non riuscivo a vedere i talenti degli altri? Se fossero stati davvero dei buoni a nulla, come avrebbero potuto lavorare in quell’azienda così a lungo? Forse mi sbagliavo. Avrei dovuto lasciare carta bianca a loro, così che mostrassero il proprio talento, e avrei dovuto dividere il lavoro con loro, collaborare. In quel momento, mi sentii leggermente sollevato. Dal giorno dopo iniziai ad assegnare loro sempre più compiti.
Una sera, diversi giorni dopo, dovetti lasciare l’ufficio in anticipo per via di un impegno. Tuttavia, c’erano ancora alcuni problemi che andavano risolti. Mentre stavo pensando al da farsi, ricordai all’improvviso che una sorella, una volta, mi disse che ogni persona ha il proprio talento, e che dovremmo avere fiducia negli altri, non sottovalutarli. Decisi perciò di affidare la situazione ai miei sottoposti, suggerendo loro anche diverse possibili soluzioni che avrebbero potuto seguire. Il giorno dopo, il manager mi convocò nel suo ufficio. Ero nervoso: il lavoro fatto dai miei sottoposti non andava bene? Quando entrai nell’ufficio del manager e vidi la sua espressione seria, mi sentii ancora più nervoso: “Di sicuro c’è qualcosa che non va nel lavoro di ieri. Sta per sgridarmi di nuovo”. Mi guardavo attorno, senza sapere bene cosa fare, quando il manager, all’improvviso, tese la mano per stringere la mia. Prima ancora che mi rendessi conto di cosa stava accadendo, il manager sorrise e disse: “Il cliente ha chiamato stamattina e ha detto che la nostra squadra ha fatto un ottimo lavoro. Tutti i loro problemi sono stati risolti in modo efficiente. È tutto merito tuo”. Ero molto sorpreso di sentire quelle parole. Sapevo bene che il merito era dei miei sottoposti, non mio. Dissi la verità al manager: “Ho assegnato il lavoro ai miei sottoposti perché sono dovuto uscire prima. È tutto merito loro”. Tuttavia, il manager disse: “È merito della tua ottima leadership”. Non mi aspettavo che il manager mi lodasse, e la cosa mi rese molto felice. Ma ciò che mi emozionava di più era che avevo assistito alle azioni di Dio e avevo sperimentato che le Sue parole sono la verità. Finché avessi praticato secondo le parole di Dio, sarei stato testimone dell’autorità delle Sue parole. Grazie, Dio!
Da quel giorno, rividi la mia strategia di gestione. In primo, scelsi due dei dieci uomini come capi squadra. Per quanto riguarda i loro sottoposti, che mostravano capacità inferiori, chiesi loro di imparare tutto ciò che potevano dai capi squadra. Io mi occupavo di formare i capi squadra. In questo modo avrei avuto più tempo per occuparmi dei miei compiti. Dopo aver implementato questo nuovo sistema, mi accorsi che ognuno di loro aveva tirato fuori il proprio talento. Alcuni avevano esperienza, riuscivano a inquadrare il nocciolo del problema e risolverlo. Alcuni erano lenti, ma molto meticolosi e regolari, perciò non facevano quasi mai errori. Ad alcuni piaceva studiare, perciò quando incontravano un problema che non sapevano come risolvere facevano ricerche in internet e guardavano dei video. Ma soprattutto, ora che erano impegnati a lavorare, non giocavano più col cellulare. Quei risultati mi commossero. Capii che in passato mi ero comportato da sciocco ignorante. Se li avessi formati prima, non sarei arrivato ad essere così esausto. Com’era dannosa la mia indole corrotta, arrogante e presuntuosa!
Una volta, durante un incontro, una sorella ci disse: “Dopo che Satana ci ha corrotti, ha instillato in noi ogni sorta di veleni. Vivendo con questi veleni satanici dentro di noi, tutto ciò che riveliamo è la nostra indole corrotta. Ad esempio, quando viviamo secondo l’idea satanica che “Io sono il mio signore”, il nostro animo è pieno di arroganza e presunzione. Siamo sempre egoisti, cerchiamo di fare in modo che gli altri ci ubbidiscano e non siamo in grado di accettare i loro suggerimenti. Pertanto, se vogliamo liberarci della nostra indole corrotta, piena di arroganza e presunzione, dobbiamo accettare il giudizio e il castigo della parola di Dio, riflettere sulla nostra indole corrotta, praticare la verità e vivere secondo le parole di Dio”.
Il discorso della sorella mi fece comprendere che questa indole arrogante e presuntuosa è radicata in ognuno di noi e domina le nostre azioni e le nostre parole. Abbiamo bisogno urgente di liberarcene. Sapendo ciò, tutte le volte che mi trovato in mezzo ad altri, imparai a farmi da parte. Quando si discuteva di lavoro, davo l’opportunità a tutti i presenti di esprimere la propria opinione. Se per caso non eravamo d’accordo, non insistevo più sul mio punto di vista, ma mettevo la faccenda ai voti per decidere quale strategia fosse la migliore per l’azienda. Così facendo, scoprii che anche se i suggerimenti dei miei sottoposti erano piuttosto tradizionali, valeva la pena di ascoltarli. Combinando i loro consigli con le mie proposte, spesso ottenevamo buoni risultati.
Un giorno lessi queste parole di Dio: “Nella sua vita, se l’uomo desidera essere purificato e ottenere cambiamenti nella propria indole, se vuole vivere una vita piena di significato e compiere il proprio dovere di creatura, allora deve accettare il castigo e il giudizio di Dio e non deve permettere che la disciplina e le percosse di Dio si allontanino da lui, così da potersi liberare dalla manipolazione e dall’influenza di Satana e vivere nella luce di Dio. Sappi che il castigo e il giudizio di Dio sono la luce, la luce della salvezza dell’uomo, e che per lui non esiste migliore benedizione, grazia o protezione”. Riflettendo sulle parole di Dio, ricordai la mia precedente esperienza. Ero una persona arrogante e presuntuosa che non sapeva rispettare gli altri, non li teneva in considerazione e non aveva amore per loro. Attraverso il giudizio e il castigo delle parole di Dio, conobbi gradualmente la mia arrogante corruzione. Quando ho praticato secondo le parole di Dio, imparando a mettermi da parte e non trattando più gli altri facendo affidamento sulla mia arrogante indole, ho guadagnato la lode e il rispetto dei miei colleghi e il mio cuore ha ottenuto la vera liberazione. Ho sentito profondamente il giudizio e il castigo di Dio sono la luce, la più grande benedizione e protezione per noi esseri umani. Solo il Suo giudizio e il Suo castigo possono farmi riconoscere la mia indole corrotta e spingermi a ripudiarla e vivere con la giusta umanità. Sono determinato ad accettare ancora di più il giudizio e il castigo di Dio, e a vivere da persona genuina per confortare il Suo cuore. Gloria a Dio Onnipotente!
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